Raramente capitano weekend così, in bilico tra viaggi musicali e peregrinazioni fisiche, rimpallati in meno di 24 ore tra un concerto intimista e sorprendente nel cuore della propria città (A Hawk and a Hacksaw alla Mela di Newton di Padova) a un’ondata di gente in una smodata baraonda oltre confine (Manu Chao a Lubiana), veleggiando tra musiche che evocano a sua volta luoghi, viaggi e confini estremamente sfumati: un autentico inno alla musica folk, sebbene non ci sia perfettamente chiaro il senso di questa definizione.
Il 2011 nel frattempo si sta rivelando un anno da urlo, considerata l’abbinata del weekend, preceduta un mese e mezzo fa dall’esibizione di Goran Bregovic e in attesa fremente per l’appuntamento ferrarese del 5 Luglio con i Beirut. Senza contare tutto quello che avverrà prima e dopo quella data. Non posso più fare la lista dei concerti, la wishlist e il corrispettivo preventivo economico risulterebbero qualcosa di eclatante ed esagerato. Ma se c’è qualcosa su cui vale la pena di investire, è sicuramente l’emozione che ti danno certe esperienze live, catarsi collettive (e allo stesso tempo personali) che restano dentro e non se ne vanno più.
E proprio per rimanere in tema stiamo aspettando gli Arcade Fire che riempiranno uno stadio, i Belle & Sebastian che riempiranno una sala e gli Annie Hall che riempiranno un pub. Proporzioni diverse per generi neanche troppo diversi e che si snodano lungo l’asse comune (in quanto indecifrabile) di quel poprockfolk, con diverse gradazioni e differenti climax stilistici. Tutti però contribuiscono a questo momento di bellezza stupefacente a livello musicale. Visto che ci abbiamo preso gusto ora vorrei poter rivedere anche i Calexico, una band che dal vivo mi ha sempre lasciato con la bocca spalancata e gli occhi lucidi di meraviglia. Confido nel fatto che l’anno è ancora lungo e che questo 2011 mi sta solo viziando.
Ma torniamo al nostro weekend. Venerdi sera ci siamo seduti ammirati davanti agli A Hawk and a Hacksaw, molto vicini artisticamente ai Beirut, con i quali hanno condiviso gli esordi suonando nel loro primo album “The Gulag Orkestar“, sicuramente il più drammatico tra i loro lavori.
Proprio come Zach Condon e il suo mirabilante carrozzone, anche il duo composto da Heather Trost e Jeremy Barnes è di Albuquerque (New Mexico), città dalla quale sono partiti con trombe, violini e fisarmoniche a tessere trame musicali dal sapore balcanico, come stormi di uccelli in perenne migrazione, senza seguire il corso delle stagioni ma con un vagabondare incessante e apparentemente senza un fine preciso (ma la magia sta proprio in questo).
Gli Hawks, supportati da altri due musicisti, hanno creato la loro magica atmosfera in pochi minuti, bravissimi a stupire quel piccolo muro di gente in piedi davanti a loro, dopo che simpaticamente hanno fatto alzare le prime file che erano sedute a terra, ironizzando sul fatto che aspettavano di trovarsi “meno Siesta e più Fiesta”. E’ anche vero che confondere italiano e spagnolo è un tantino grossolano e che nel Nordest produttivo si è lavorato fino a 5 minuti prima del loro concerto. Nessuna polemica, solo invidia per la loro condizione di vagabondaggio, sia fisico e che mentale.
Alla nostra domanda incuriosita posta al cantante a fine concerto – da dove traggano maggiore ispirazione per la loro musica – la risposta è stata “Travelling!”, con un sorriso venato di sicurezza, credo che la replica sia stata tanto semplice quanto esaustiva.
Eccolo il senso del viaggio, nomadismo artistico, culturale, musicale, intellettuale e di una musica “bordeline”, nel senso che sta a cavallo tra i generi e che gioca proprio su inesistenti confini (border appunto).
Basta poco per prendere la macchina e sconfinare la mattina seguente e non sapere con che salsa mangiare i cevapcici perché alla fine sia Ajvar che Kajmak danno soddisfazione e compiacersi nel ritornare in quel divertente circo di Metelkova, dopo aver passato buona parte del giorno ad ustionarsi lungo in fiume, sorseggiando litri di di birra Lasko.
Di lì a poco troveremo un palazzetto che ribolle per Manu Chao (incredibilmente sulla soglia dei cinquant’anni), icona postmoderna, terzomondista, anti globalista e al tempo stesso super pop. Lo scenario adibito all’evento è l’Arena Tivoli, nel bel mezzo di un parco stupefacente, polmone verde di una capitale già di per sé piccola, raccolta ed estrememente candida, il gioiellino di Lubiana, ideale crocevia tra Est e Ovest Europa, anche se qui ormai siamo in pieno clima occidentale.
Manu Chao è alla prima tappa del suo Balkan Tour e glielo stiamo invidiando, anche se sembra stia quasi copiando il nostro trip di quest’ultima estate. Seppure siano solo in tre sopra il palco, il suono è pienissimo (e forse un tantino artefatto), le mani che battono e la gente che canta sovrasterebbero comunque qualsiasi sfumatura sonora. Conta poco la location, conta poco il gusto di festa annunciata, anche perché non può essere altrimenti e anche lui non credo sia immune dal business che riesce a muovere. Eppure è un emozione esserci, perché siamo alla perdita più totale del confine musicale, il patchanka diventa quasi una una danza tribale per scacciare ogni male.
Perdido en el corazón de la grande Babylon me dicen el clandestino por no llevar papel…
E neanche a farlo apposta, ultima tappa involontaria di un weekend che profuma d’estate, con il sole che comincia a scottare sulla pelle, c’è una visita al Museum of Modern Art di Lubiana, dove ci imbattiamo in un’inaspettata mostra/installazione sulle case mobili (chiamate qui “infrastrutture creative”) nel Circolo Polare Artico. Eccoci all’improvviso stradiati all’interno di un prototipo di tenda, con tanto di musica innuit diffusa dalle casse con una “Ajaja Song” in loop, un effetto straniante amplificato dalla chiusura degli occhi. Dove siamo adesso? E’ quanto di più folk potessi aspettarmi, anche se magari questa ipnotica cantilena chissà se ha rappresentato un successo pop tra gli eschimesi. Siamo sempre al punto di partenza, i confini sono labili e tanto vale non considerarli. L’estremo folk corrisponde all’estremo pop sotto un certo punto di vista.
Tanto per tornare al punto di partenza, questa improvvisa esperienza cultural/musicale ci ha evocato l’incipit di “Arizona Dream” di Kusturica, con il “pesce freccia” (e fuori dalla nostra tenda c’è invece un pesce gigante in legno, olé!) che comincia il suo valzer proprio a partire da un igloo e con le musiche innuit che si mischiano con le note del duetto mozzafiato tra Goran Bregovic e Iggy Pop… in the deatchcar we’re alive…
I concetti di Folk e di World Music si sono estesi e dilatati fino quasi a sparire, dare precise definizioni di genere diventa missione impegnativa, abbiamo cercato allora qualche aiuto in rete ma non ci è piaciuto nulla in particolare, ecco che allora siamo andati a pescare nei nostri “archivi” ed abbiamo trovato qualche vecchia riflessione sempre sullo stesso argomento:
“La World Music significa di volta in volta, musica degli “altri”, musica etnica registrata in digitale, popular music non anglosassone, popular music anglosassone con suoni o strumenti o musicisti “esotici”, musica “contaminata”, musica colta non occidentale, musica fatta da gruppi multietnici, musica autenticamente falsa, musica falsamente autentica, musica del riscatto dei popoli dimenticati, musica della furberia di musicisti riciclati. Spesso musica bella, per fortuna.
Alberto Antonello